Mordecai Richler’s penultimate novel, and certainly his most ambitious, Solomon Gursky Was Here is a yarn spun around the Gursky brothers – Bernard, Morrie, and Solomon – kings of a whiskey empire forged from bootlegging, millionaires many times over, and based on Canada’s Bronfman family. The brood constitute the grandchildren of one Ephraim Gursky, a Jew and sole survivor of the ill-fated Franklin Expedition, an 1846 attempt at unmasking the Northwest Passage. Ephraim cuts a trickster figure; a Holy man and polyglot who has been self-employed as both thief and forger. In the Arctic, confronted by the Inuit, he calls forth an “eclipse,” thus saving his hide and catapulting to the echelon of deity. He establishes a Jewish sect whose offspring sport parkas with Orthodox markings. He learns Latin, and, in one of the book’s more bizarre, and irrelevant, sections, gives the business to the instructor’s rigidly Christian wife. Glimpses of Ephraim’s life come to us via Solomon, which come to us via Moses Berger, a scholarly alcoholic and philanderer who becomes obsessed with Solomon Gursky after he’s killed in a plane crash in the North, perhaps because of some mechanical tampering at the hands of his brother, Bernard. But is Solomon really dead? We’re not certain, and the complex, time-skipping narrative, interlaced with snippets of Yiddish, machinations of bootlegging on the Prairies, Inuit myth, Judaism, a palm-greasing scene set against the backdrop of a fishing expedition in northern New Brunswick, references to Carl Jung, descriptions of nineteenth century London, analyses of human greed, perversion, and corruption, and a thousand other subjects, themes, connections, symbols, asides, etc., takes on a sort of mystery element. Through Berger’s research (he is connected to the Gurkys through his father, a failed poet hired by the liquor barons as a speech writer cum cultural advisor, like the Bronfman’s hired the poet A.M. Klein), we catch glimpses of Solomon at the Long March, Watergate, Nairobi, Israel, and, of course, the Canadian arctic. Or perhaps it’s not really him. Or perhaps his sprit now resides in an arctic raven, a trickster figure in Native myth, playing games on mankind and watching on in amusement. You imagine a plot chalked out on about four dozen blackboards and you wish the first chapter were preceded by a genealogical chart. Solomon Gursky Was Here is outstandingly complex, and you wonder, more than once, in spite of the brainy detail and impressive intellectual workouts, if the narrator knows where he’s going. Many consider this to be Richler’s finest novel, and although I would say it’s the most remarkable (you can’t help but marvel at how much the author knows, and the enormity of the task he’s taken on), I enjoyed Barney’s Version and The Apprenticeship of Duddy Kravitz better, even though, stylistically, Duddy Kravitz isn’t even in the same league as Solomon Gursky. That isn’t to say I didn’t enjoy the book; I did, but, alongside the sections that shone, there were sections unnecessary. Really, I should give this book three stars, but I’m giving it four. It took Richler a decade to complete, and he remains, for me, Canada’s best and most important writer. Technically, there are others who write as well (Margaret Atwood, Robertson Davies), but there is no one more compelling. Although this book is often compared to Marquez’s One Hundred Years of Solitude, the analogy is fragile; yes, it’s generational; yes, it delves into magical realism. But Solomon Gursky Was Here remains unique.
****La ricerca di una storia, anzi, la ricerca della vera versione di una storia. "Solomon Gursky è stato qui" è un libro monumentale e non è sicuramente una lettura facile per vari motivi. La trama non segue un semplice cammino lineare, ma viene sviluppata tramite vari intrecci collegati tra loro e raccontati in epoche diverse (prima nel XIX secolo, poi nel 1973, poi negli anni '50, poi si torna negli anni 70). Il linguaggio stesso è arricchito da tanti termini inuit e yiddish, e per seguire bene la storia spesso bisogna ricorrere all'albero genealogico dei Gursky o al glossario, riportati rispettivamente a inizio e a fine libro.Il quadro complessivo è monumentale, come detto prima, con davvero tanti personaggi che hanno ruoli più o meno importanti; forse i veri protagonisti del libro sono il talento sprecato dall'alcol Moses Berger che vuole ricostruire la storia dei Solomon Gursky , la figura semi-mitologica di Ephraim Gursky, quasi un dio presso dli eschimesi ("Non ti prostrare [...] a qualunque altro dio, razza di povero stronzo ignorante"), i tre famigerati fratelli Gursky (Bernard, Solomon e Morrie), il ligio al dovere e pedante Bertram Smith. Ci sono inoltre tanti altri personaggi con parti abbastanza significative per lo scenario o che fungono da contorno (come le simpatiche "macchiette" del bar Caboose).Anche se questi fattori rallentano la lettura del libro, la storia è scritta bene e a tratti Richler è in grado con la sua ironia di strappare un sorriso al lettore; la trama stessa è avvincente, ricca di riferimenti storici interessanti (in primis tutta la vicenda dell'Erebus e del capitano Franklin), citazioni e con qualche colpo di scena.Sicuramente non è libro fondamentale, però lo consiglio come una buona lettura in quei periodi in cui magari non si sa cosa leggere.
What do You think about Solomon Gursky Was Here (2002)?
There were times when I believed "Solomon Gursky Was Here" would collapse under the weight of some many time lines, characters, and emotional baggage...it's the novel equivalent of the most exquisitely constructed Jenga tower...ready to topple over at any moment. Luckily it doesn't...and Mordechai Richler's most ambitious & epic novel manages to hold together with stunning skill. This truly is an astonishing read, and shows a depth & breadth of reach that many people might not have believed Mr. Richler capable of achieving. After reading "Gursky", throw any such doubts into the dustbin.
—Daniel Kukwa
Una lettura che, a dir poco, definirei difficile: vuoi per i vari livelli (cronologici, geografici e culturali) su cui la storia si dipana, vuoi per la modalità del raccontare a frammenti (brani che definire "flashback" mi pare fin troppo).Ma, se seguire il filo narrativo è talvolta complicato, la storia si dimostra effervescente e, quanto meno, curiosa: l'epopea dei Gursky ci conferma che Richler è un grande scrittore, che sa strappare sorrisi (amari e non) in quantità. E se la lettura è spesso volutamente difficile, è da sottolineare come l'impulso predominante non sia mai quello che spinge ad abbandonare la lettura, quanto piuttosto quello che ci porta a voler ricominciare tutto da capo.
—Davide Socci
E’ un buon romanzo, ma meno coinvolgente de La versione di Barney, probabilmente perché quest’ultimo aveva un unico protagonista che catalizzava tutta l’attenzione, a dispetto delle tante figure, secondarie o meno, che pur costellavano il racconto. Barney era un “figlio di puttana”, al pari del precedente Duddy Kravitz, che non potevi fare a meno di trovare simpatico. Qui, diciamo, di “figli di puttana” ce ne sono un po’ troppi per reggerli proprio tutti. Ci vuole un po’ ad ingranare, perché la storia si snoda lungo due secoli e ci racconta della famiglia dei Gursky, di come si sono affermati, moltiplicati e ripetutamente offesi, con continui salti temporali in avanti e all’indietro. Come se ciò non bastasse, vengono richiamati e ripercorsi anche dei veri e propri pezzi di storia, in qualche modo intrecciati dall’autore alle vicende dei protagonisti, come, ad esempio, la spedizione di John Franklin alla ricerca del famoso “passaggio a nord-ovest” e quelle successivamente partite sulle sue tracce dopo che non se ne ebbero più notizie. Il che non facilita sicuramente la lettura. Ma i romanzi di Mordecai Richler sono tutti così: un casino della madonna. Parte del loro fascino, d’altro canto, deriva proprio da questo.Stupisce sempre l’abilità con cui lo scrittore riesce a reggere le fila di materie tanto complicate. In questo senso, è un affabulatore a dir poco eccezionale. Manca sempre, altresì, una vera e propria introspezione psicologica dei personaggi. O meglio, lui li schiaffa lì, davanti al lettore, e pare dirgli “Vedi un po’ tu se riesci a capire cosa cavolo avevano dentro la testa. Io questa responsabilità non intendo prendermela.”. E così, pagina dopo pagina, ti ritrovi lì a smazzarti i comportamenti paranoidi di questo e di quello. Però ti diverti una cifra a farlo. Anche se poi, alla fine, magari finisci per chiederti: “Sì, vabbè, e allora?”.Proprio come ne La versione di Barney, la storia comincia a prendere forma e farsi comprensibile poco a poco. Solomon, che dà il titolo al romanzo e inizialmente viene solo citato ad uso e consumo di chi ne fa riferimento, compare effettivamente solo dopo circa trecento pagine, portando a compimento e facendo esattamente “incastrare” ingranaggi che si erano messi in moto molto prima, saziando curiosità che il lettore aveva da tempo, chiarendo particolari che erano rimasti in sospeso. Proprio per questo è meglio procedere con calma e pazienza nella lettura, altrimenti si rischia di perdersi e di non coglierne la caotica bellezza.PS: E poi c’è Moses Berger, naturalmente. ;-)
—Arwen56