CAMPODIMELEIn questo periodo sono fortunato, oppure scelgo bene: da un po’ di tempo a questa parte leggo solo bei libri. Non ci sono abituato, e mi piace.Sono frammenti di memoria e riflessioni che Appelfeld (campo di mele in tedesco, la lingua degli assassini di sua madre) deve aver faticato a tirare fuori: forse è proprio per questo che sono così interessanti e uncinanti.Si comincia in una zona d’Europa che all’epoca faceva parte della Romania, la Bucovina dove si parlava il ruteno e non il rumeno, il solito risiko della politica estera. Il viaggio è lungo: inizia da lì, attraversa tanta Europa, sosta in Italia e approda in Palestina subito prima che diventi Israele.Il piccolo Aharon ha un’immaginazione fervida e il mondo della sua infanzia è descritto a metà tra Eden e Oz: cresce circondato da verde, libri calore e amore. E con la stessa leggerezza, e lo stesso garbo dolente, racconta l’inizio della persecuzione, come se facesse ancora parte del mondo magico. E di fiaba, per certi versi si tratta, perché si fatica a credere che un’infanzia possa trasformarsi così: la mamma muore all’inizio della persecuzione, il padre lo accompagna fino al lager e sparisce, possiamo immaginare come, il bambino riesce 'miracolosamente' a scappare. Le pagine dedicate ai giorni trascorsi nel ghetto, coi giochi fra i bambini e i matti lasciati liberi di girare per le strade, sono intense e indelebili; allo stesso modo non si dimenticano più alcune immagini del campo di concentramento (Kaltschund), per esempio quelle del recinto dove i pastori tedeschi da guardia sbranavano i bambini.Il piccolo Aharon di sette anni comincia a vagare per la campagna, soprattutto per i boschi: vivendo nascondendosi nutrendosi come un animale – molto più a suo agio e al sicuro con le bestie del bosco che quelle umane. Sono anni di solitudine, di selvatichezza, di paura e sospetto, di attenzione vigile e guardinga, di silenzio, di distanza dalla parola, di minaccia nascosta in ogni ombra e gesto.Aharon sopravvive, e accumula esperienza infinita. La guerra finisce, Aharon si è nascosto per sei anni e ha camminato mezza Europa: adesso ha 13 anni, arriva in Italia, rimane mesi nei campi profughi sulle spiagge italiane, dove c’erano molti bambini della sua età e con storie simili alle sue - proprio per questo erano posti frequentati da contrabbandieri e maniaci che cercavano di circuire i bambini per trasformarli in ladri, circensi, prostituti. Spesso ci riuscivano.Arrivavano anche emissari del nascente paese degli ebrei: spingevano alla partenza, a imparare l’ebraico, a dimenticare non solo la lingua d’appartenenza, anche se yiddish, perfino i ricordi. Dimentica la diaspora e radicati nella terra, era il loro motto: i sopravvissuti, a tutte le latitudini, imbarazzano, finiscono presto con l’essere un impiccio, ricordano, impediscono di dimenticare, mantengono vivo il senso di colpa collettivo.La seconda parte, nel paese d’arrivo (d’accoglienza?) mi ha trovato meno preparato, mi ha spiazzato. Una bella sensazione. Gli anni nel paese in trasformazione, le difficoltà, le pressioni, certe forme di ostracismo di fronte ai suoi primi tentativi letterari… un mondo ancora poco noto per me. Dopo essere sprofondati nella terribile notte novecentesca, in quei dodici anni che durarono un millennio, lentamente si torna a “riveder le stelle” intonando un bellissimo inno al valore dell’amicizia: i veri amici se hanno una parola giusta la porgono come un pezzo di pane in tempo di guerra, e se non ce l’hanno ti siedono accanto, e tacciono.Campodimele è un paese dell’entroterra laziale a sud di Roma. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, la linea Gustav, che doveva fermare l'avanzata delle truppe alleate, passava proprio attraverso il territorio comunale, consentendo dalle sue alture il controllo della Valle del Liri e delle vie di comunicazione tra il Tirreno e l'entroterra frusinate. Questa situazione portò, il 10 gennaio 1944, alla deportazione di settecento abitanti (su 1400) e poi i soprusi, le miserie, i bombardamenti che caratterizzarono il fronte di Cassino. Infine le violenze e gli stupri da parte dei marocchini del corpo di spedizione francese, che con gli anglo-americani conquistarono Monte Faggeto e quindi Campodimele tra il 18 e 20 maggio dello stesso anno. Questi episodi offrirono lo spunto per il romanzo “La Ciociara” di Alberto Moravia, che era sfollato proprio su un monte tra Fondi e Campodimele.Per queste vicende, Campodimele ha ricevuto la medaglia d’argento al merito civile.Se mai un giorno dovessi avere voglia di leggere un libro di preghiere, ma spero che questo non avvenga mai, vorrei che fosse scritto così.
In his terrifying and beautiful memoir, The Story of a Life, Aharon Appelfeld does more than tell his life story (although, with his elliptical style, which can be rather like a narrative form of Swiss cheese, it sometimes seems as if he does less than that, too): The Israeli writer and Holocaust survivor battles history itself.It is a typically elliptical rendering of his life. This is not the breathless adventure story suggested by the book’s dust-jacket copy, where overwrought phrases like “extraordinary survival and rebirth” impose a narrative arc that doesn’t exist except in the minds of Oprah-influenced marketers. Instead, Appelfeld provides a series of wonderfully written and compelling vignettes interspersed with meditations on the difficulty of remembering. He gives us a boyhood home where there is “more quiet than talking,” and he gives us the camp not at all. (There is a camp, and it is gruesome, but is it Appelfeld’s? He doesn’t say.) There are also a few heartbreaking glimpses of the ghetto, where, he tells us, “children and madmen were friends.”
What do You think about The Story Of A Life (2006)?
Read Larry McMurtry's Walter Benjamin at the Dairy Queen for a similar experience. It is one of the small volumes of his memoirs. It was also my connection to taking your Proust session online. The key chapter is included in Unholy Ghost, a book of writings on depression by famous writers.
—Al Filreis
Applefield's book is a strange mix: part autobiography/memoir and partly a book about language, art, culture, and the struggles of a writer to find his authentic voice. The first part, chronicling the author's war years as a child who escaped from a camp and survived by hiding in the woods and passing himself of as a non-Jewish orphan, appealed to me most. However, Applefields subsequent musings about his difficult adaptation to Palestine: socially, linguistically, vocationally, and spiritually are engaging as well. Ultimately, you applaud the fact that in the end the author overcame such steep obstacles, matured as a person and a writer, and was able to finally become the WRITER that he always believed himself to be.
—Adam Rabiner
This memoir had me at foreword. Two things were clear from the start, that Appelfeld is an amazing writer and that the story of his life is one of a kind. Why one of a kind? Not just because it is a story of an orphan who survived against impossible odds and a man who had lost all he has known and loved but because it somehow something more than that, a tale of humanity and hope.I finished this book about 3 a.m this morning. Enough said. I couldn't put it down despite the fact that it (being the middle of a night) was freezing. The author tells his life from his first memories. He is not always chronological nor does he always goes into detail. Somethings he doesn't want to talk about yet this book feels like the most complete memoir I have ever read (and it happens to be the best). It is not always best to talk about everything, I know it seems to be a popular opinion with today's psychology but somethings cannot be overcome when we are barely hanging on your sanity...as everyone is in desperate conditions. He tells about people who survived the worst tragedies only to be confronted with merciful questions.Appelfeld found a way to talk about war in a way I quite frankly never thought possible. He doesn't try to hide its horrors but he doesn't brood over them as well. He is never sentimental yet he is always warm. This is after all a memoir of a survivor, someone who was not physically or psychologically beaten. He also focused on particular terrible aspect of any war and that is that post-war times when all the human vices seem to come on surface. You think that the worst thing about war is the war itself. You'd be wrong. Post-war times when heroes are too tired or dead and everyone is devastated is when it all goes to hell. That was the most difficult thing to read about: tales of children being molested and taken away by smugglers. There is a great deal more that can be said about The Story of a Life. The writer explores many issues and dilemmas, both personal and collective. His talk about languages I found particularly fascinating perhaps because linguistic is my area. He talks about finding himself in Israel, alone, orphaned, and the sadness that accompanied the loss of his mother tongue and the same time frustration that followed his inability to learn Hebrew , or perhaps better to say great difficulty because he eventually did learn it obviously. Most touching, warm, honest and complete memoir I have ever read. Absolutely one of those life changing books.
—Ivana